mercoledì 1 febbraio 2012

Bioshopper: tanto rumore per nulla


Siamo proprio sicuri che il Decreto Legge 2/2012 metta fine al commercio dei sacchetti additivati per essere biodegradabili? Una lettura attenta del testo sembrerebbe suggerire di no: vengono esclusi dal divieto, fino all'emanazione di un futuro decreto interministeriale, i sacchetti compostabili conformi alla EN 13432 (per i quali la biodegradabilità era comunque certificata) e quelli rituilizzabili (con spessore superiore a 100 e 200 micron), mentre per tutti gli altri resta valido quanto enunciato dalla legge 296/2006, che parla genericamente di biodegradabilità.

Il tanto atteso decreto legge sui bioshopper, quello che - per intenderci - avrebbe dovuto metter fine alla diatriba tra bioplastiche e plastiche additivate, alla resa dei fatti non sembra apportare elementi di novità. E’ vero che nel testo viene citata la norma EN 13432 sulla biodegradabilità e compostabilità degli imballaggi, alla quale viene assegnato uno status di favore, ma non viene affatto chiarito se questa norma debba considerarsi o meno il riferimento per valutare se un sacchetto sia in ultima istanza biodegradabile - e quindi escluso dal divieto di commercializzazione - o non biodegradabile, e quindi non adatto ad essere messo in commercio.

Una proroga inutile. In effetti, il primo comma dell’articolo 2 del DL 2 del 25 gennaio 2012 si limita a prorogare, fino all’emanazione di un prossimo decreto interministeriale, il termine per l’entrata in vigore del divieto alla commercializzazione dei sacchetti non biodegradabili, limitatamente a quelli conformi alla EN 13432 e ai sacchetti di spessore superiore a 100 o 200 micron (a seconda siano destinati all’asporto di prodotti alimentari o meno). Per tutti gli altri la proroga non vale e, di conseguenza, resterebbe in vigore il divieto introdotto con la legge 296 del 26 dicembre 2006 (e successive proroghe), che riguarda la "commercializzazione di sacchi non biodegradabili per l’asporto delle merci che non rispondano entro tale data, ai criteri fissati dalla normativa comunitaria e dalle norme tecniche approvate a livello comunitario". Biodegradabilità non meglio specificata - si rimanda anche in questo caso al decreto da emanarsi entro il 31 luglio 2012 - e che quindi potrà continuare ad essere rivendicata anche dalle plastiche additivate con prodotti che le rendono biodegradabili (ma non compostabili). Senza, per altro, incorrere in sanzioni, visto che queste entreranno comunque in vigore il 31 luglio 2012.
Il decreto, in sostanza, ribadisce in modo pleonastico che se il sacchetto è biodegradabile e compostabile secondo la norma UNI EN 13432 o di grande spessore (ben oltre il necessario per essere considerato tecnicamente riutilizzabile) può essere messo in commercio senza limitazioni. In caso contrario vale la quanto riportato dalla legge 296: se lo shopper può essere considerato biodegradabile (senza indicazione dei tempi di effettiva degradazione), come è il caso dei sacchetti additivati, può comunque essere messo in commercio. Resterebbero esclusi i soli sacchetti in polietilene tal quale - difficile in questo caso appellarsi alla biodegradabilità -, ma i commercianti sbadati non rischiano comunque nulla fino al 31 luglio.

Tutti contenti? Resta da chiedersi perché l’articolo 2 sia stato prima tolto dal Milleproroghe e poi reinserito, in tutta fretta, all’interno di un decreto concernente misure urgenti per l’ambiente, visto che - nella pratica - non avrà alcun effetto. Una prima ragione è mediatica: in questa fumosa formulazione, accontenta tutti: i produttori di bioplastiche compostabili e una frangia di ambientalisti attribuiscono all’apparizione della norma UNI EN 13432 una sorta di valore messianico, estendendo l’esclusione dei sacchetti a norma, effettivamente prevista dal decreto, all’assoggettamento di tutti i sacchetti biodegradabili a tale norma (cosa invece non indicata in nessuna parte del testo). D’altra parte, i fautori dei sacchetti additivati, leggono nell’annuncio di un futuro decreto che possa estendere il campo di esclusione del bando, oltre che nella mancata definizione della EN 13432 come unico e incontrovertibile riferimento per la biodegradabilità, una conferma della possibilità di continuare a vendere i propri prodotti, e la speranza di poter spingere, nelle commissioni parlamentari, verso un’interpretazione più estesa del concetto di biodegradabilità. Nei prossimi mesi sarà questo il vero terreno di scontro tra i contrapposti interessi.

Compiacere Bruxelles? Una seconda ragion d’essere dell’articolo 2 potrebbe essere quella di disinnescare un possibile intervento di Bruxelles. Formalmente, infatti, il bando agli shopper non biodegradabili avrebbe dovuto essere sottoposto alla Commissione Europea prima della sua entrata in vigore, in quanto considerato alla stregua di una norma tecnica e come tale soggetto alla comunicazione preventiva in base alla direttiva imballaggi. L’annuncio di un prossimo decreto, da redarsi in piena conformità con le prescrizioni comunitarie potrebbe placare gli euroburocrati e azzerare o congelare eventuali procedimenti in corso.

In conclusione, i giochi sembrano ancora aperti, anche se non vanno alimentate false speranze, soprattutto nei confronti dei produttori di sacchetti che non sono in grado di riconvertirsi ai bioshopper, o perché non dispongono di impianti adeguati, o perché non hanno accesso alle forniture di biopolimeri. Difficilmente bioplastiche e plastiche additivate biodegradabili potranno convivere a lungo, a causa del significativo gap prestazionale ed economico (a favore dele seconde, che però non possono vantare un pedigree ambientale altrettanto verde), che finirebbe per mettere fuori mercato i sacchetti in bioplastica. Gli ingenti investimenti annunciati da Novamont, ENI e dal gruppo M&G in questo settore, insieme con quelli in arrivo dall’estero (Cereplast, DSM per citare i principali), avranno senz’altro un peso nelle decisioni del legislatore (di contro, è vero che ENI produce anche polietilene, ma non c’è tecnologia italiana, n'è impianti produttivi nazionali nel segmento degli additivi oxo).

Rischio di monopolio? Non ha invece senso evocare lo spettro del monopolio per mettere in cattiva luce le bioplastiche: è indubbio (e lecito) che Novamont spinga verso l’adozione di bioshopper compostabili, ma il produttore novarese, pur un player importante del mercato, non è l’unico né il principale fornitore mondiale di questa classe di materiali. Piuttosto c’è da chiedersi se esistano sufficienti capacità produttive di biopolimeri per sostenere un passaggio ai sacchetti conformi alla UNI EN 13432. Certo, la situazione è destinata a migliorare nel tempo, con l’avvio di nuove capacità produttive e il dirottamento verso il mercato italiano di produzioni esistenti, ma l’offerta non è sufficientemente elastica nel breve periodo (costruire nuovi impianti richiede molti mesi).

Perché non i riciclati? Manca invece una misura che poteva essere introdotta a costo zero, con beneficio per i produttori di sacchetti e per l’ambiente: stiamo parlando dell'esclusione dal divieto dei sacchetti in plastica riciclata, magari imponendo una logica di closed loop, ovvero prevedendo l'impiego di plastica rigenerata dagli stessi sacchetti, in forma esclusiva o prevalente. Ne avrebbe beneficiato anche il settore del riciclo di materie plastiche, che con la messa al bando degli shopper in polietilene vede ridursi la disponibilità di materia prima per i propri impianti.

Meno o più plastica? Se poi la ratio del divieto è ridurre la quantità di plastica immessa al consumo, sarebbe stato meglio condurre preventivamente uno studio sugli effetti di tale provvedimento sul mercato finale. Perché se è vero che gli italiani hanno riscoperto il valore della sporta (sacco riutilizzabile) è anche vero che i vecchi shopper in polietilene, robusti pur non essendo spessi, erano utilizzati per svariati usi prima di finire la loro vita come sacchetti della spazzatura, dove conferire l’indifferenziato; sacchetti che oggi vengono comunque prodotti, acquistati e utilizzati (qualcuno dice in quantità notevolmente superiori al passato). C'è chi fa notare che i sacchetti in bioplastica, per garantire prestazioni accettabili, devono essere più spessi di quelli tradizionali, richiedendo quindi un maggior impiego di energia e materie prime (anche fossili, visto che circa il 50 per cento del materiale utilizzato oggi nei bioshopper non è biobased). Per non parlare dello spessore minimo, che avrà come risultato un aumento della quantità di plastica utilizzata, ben oltre quanto richiesto da un punto di vista tecnico. E poi, perché differenziare i sacchi alimentari da quelli destinati ad altri usi?

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